D'entre les morts,Vertigo, Obsession e Body Double

D’entre les morts, Vertigo, Obsession e Body Double: un mystery parigino a Hollywood (1954-84)

                   “Flavières passò il braccio intorno alle spalle      di Maddalena. Si chinò verso l’orecchio di lei,      come per deporvi un bacio.
                <Confessa, cara>.
                Ella si appoggiò lentamente alla parete di       mogano.
                <Sì,> fece... <Sono Maddalena>.
                Boileau, Narcejac, D’entre les morts

Parigi, maggio 1940. Gévigne contatta Flaviéres, un tempo suo compagno di università, per affidargli un delicato incarico: seguire la moglie Madeleine che dà segni di schizofrenia. Si crede posseduta dallo spirito di Paolina Lagerlac (1840-1865), sua bisnonna, morta suicida. L’uomo, ex poliziotto che soffre di una grave forma di acrofobia (panico per le altezze), accetta. Durante i pedinamenti tra il Louvre, avenue Klebèr, l’Etoile e il lungo Senna, se ne innamora, la salva da un tentato suicidio nelle acque del fiume, ne diviene segretamente l’amante ma poi non riesce a fermarla quando sale sul campanile nel piccolo paesino (inventato) di San Nicola (vicino Sailly, a nord ovest di Parigi, verso Rouen; probabilmente è la chiesa con campanile dell’altrettanto piccolo paesino di Sailly, circa 350 abitanti, quella descritta nel romanzo; vedi foto) e si butta di sotto. La paura per le altezze impedisce all’uomo di seguirla sulla cima. Sconvolto, Flavierés fugge via, non ammette il fallimento, non racconta l’accaduto a Gévigne, parte per Orlèans. In seguito l’arrivo dei tedeschi gli impedisce di tornare a Parigi e così egli si dirige verso sud, a Tolosa, mentre l’amico lo scongiura di tornare a Parigi.
Cinque anni dopo, a guerra finita, Flaviéres, ora in preda a un pesante alcolismo, torna nella capitale francese. Scopre che Gévigne è stato ucciso da una casuale raffica di mitra durante le operazioni militari. L’ossessione per la bellezza di Madeleine non ha però  cessato di tormentarlo. Un giorno vede in un cinegiornale un volto, quasi identico a quello dell’amata, che osserva il passaggio di De Gaulle a Marsiglia. Si precipita nella città portuale, ritrova quella donna, Renata Sourange, in un albergo dove sostanzialmente si prostituisce. E’ una figura più volgare e leggermente differente nel vestiario e nell’acconciatura dei capelli, ma per il resto gli sembra proprio la “defunta”. Si unisce a lei - la quale si proclama costantemente estranea alle vicende di Madeleine Gévigne - la rimodella sulle fattezze dell’amante di un tempo, la interroga giorno dopo giorno cercando di farla cadere in contraddizione mentre l’abuso di alcol lo porta a dubitare di sé e della realtà circostante. Solo dopo molte settimane Renata-Maddalena, stremata, confessa: era l’amante di Gèvigne, aveva recitato la parte della moglie pazza proprio per creare un testimone inattaccabile del falso suicidio della moglie (la quale era stata gettata da Gévigne dal campanile), poi però la guerra e l’improvvisa fuga del “detective” avevano rovinato tutto: la polizia sospettava di Gévigne (la moglie era ricca) che, peraltro, era morto in modo casuale. Lei era sempre stata Renata Sourange.
Flaviéres, compreso di essere stato lo spettatore sciocco di una ben congegnata recita, colto da un disperato raptus, strangola la donna nel suo letto.
Questo è, in estrema sintesi, D’entre les morts (1954), il giallo della coppia di scrittori francesi Pierre Boileau e Thomas Narcejac dal quale Hitchcock trae il suo celebre Vertigo (1958). Il testo rispetta il tipico schema del mystery inglese, quello in cui la crudele realtà viene celata dietro insospettabili e ben congegnate apparenze; in particolare la copertura della coppia assassina passa attraverso una lunga ed elaborata recita che viene messa in scena per il solo Flaviéres. La simulazione di qualcosa che non esiste o che è radicalmente differente dalla verità, al fine di confondere testimoni e detective, costituisce un meccanismo narrativo ricorrente e che troviamo spesse volte utilizzato ad esempio da Agatha Christie: si pensi, tra gli altri a Poirot a Style’s Court (1920; romanzo d’esordio del celebre Poirot), Se morisse mio marito (1933) e a Poirot sul Nilo (1937).
Boileau e Narcejac avevano già utilizzato, con enorme successo, questo stratagemma nel romanzo Celle qui n’etait plus (1952; assai apprezzato da Hitchcock), che aveva ispirato I diabolici (Clouzot, 1954; rifatto a Hollywood con lo scadente Diabolique, Chechik, 1996). Ora si ripetono con una trama assai elaborata in cui una cornice esoterica (il tema della reincarnazione) si intreccia sapientemente con le realistiche durezze della tragedia bellica. Il racconto, spezzato in due parti di egual durata (1940 e 1945, Parigi e Marsiglia, Madeleine e Renata), offre spiegazioni abbastanza accettabili e comunque ingegnose per tutti gli snodi narrativi: la recita fallisce, il testimone fugge e non assolve al proprio compìto, l’ “occulto” regista nonché assassino muore casualmente, la sua ex amante subisce le degradazioni della guerra, il protagonista alcolizzato scopre solo al termine della sua odissea di essere stato vittima di un lungo raggiro, di essersi innamorato di un’assassina e a quel punto salda il conto, si libera della sua lunga ossessione, la “sopprime”.
Il regista inglese, affidato il lavoro di sceneggiatura a Samuel Taylor, rimodella il romanzo sulle esigenze di una Hollywood che sforna prodotti idonei a una platea mondiale. Mantiene tutti gli snodi principali: l’acrofobia, la recita, l’esoterismo, il campanile, la seconda Maddalena “degradata”; su essi però interviene al fine di rendere il dramma meno cupo e più accettabile a un vasto pubblico. Così facendo crea un film in più punti assurdo, inverosimile e falso, oltre che inesistente come giallo.
Innanzitutto il regista organizza in modo differente le due parti di Vertigo (125 min.): la prima dura circa 95 min. e la seconda solo 30 min., la qual cosa riduce di importanza il confronto tra il protagonista e la seconda Madeleine. Inoltre inserisce il petulante personaggio di Midge Wood (Barbara Bel Geddes), una donna innamorata dell’ex poliziotto (nel film Scottie Ferguson), grazie alla quale si raddoppiano inutilmente gli “interrogatori” che animano i dialoghi della pellicola. In pratica, l’indispettita Midge indaga sugli amori di Scottie mentre quest’ultimo costantemente interroga Madeleine sui motivi della sua “assenza” psichica. L’ambientazione è San Francisco la cui baia prende il posto della Senna, mentre il tempo è quello presente e dunque viene a mancare l’importante sfondo della guerra.
Giunti al termine della lunga prima parte, Hitchcocck attua una serie di impossibili varianti: l’ideatore del crimine, il regista occulto (Gavin nel film), scompare definitivamente dal racconto (né ci viene detto che fine abbia fatto; insomma l’ha fatta franca... ) mentre Madeleine, nonostante l’atroce delitto, non cambia città, si aggira bel bella per San Francisco con i capelli scuri anziché biondi, dove viene rapidamente ritrovata da Ferguson. Inizia allora la seconda recita: quella che permette all’uomo di ricreare l’oggetto amato, non prima però che lo spettatore sia stato informato (subito alla ricomparsa della falsa Madeleine) del reale andamento degli eventi attraverso un flashback interiore della ragazza. Così Hitchcock abbandona il mystery, distrugge l’aura di mistero che circonda la donna e riduce l’ultima parte del film a un’osservazione del comportamento del perennemente imbambolato Scottie. Non solo. A quel punto, grazie alla distruzione del mystery (nè valgono, in questo caso, le note argomentazioni del regista sulla differenza tra sorpresa e suspense, poiché nell’ultima parte di Vertigo non subentra alcuna suspense dato che il film si è praticamente trasformato in un melodramma amoroso), Hitchcock e Taylor possono inserire l’immancabile love story in un contesto realmente stravagante: Judy (così si chiama, in realtà, Madeleine) si dice ora innamorata di Scottie il quale, al culmine del loro idillio, scopre la verità (la donna “ovviamente” ha tenuto i gioielli di Madeleine... ), la riporta sul campanile (senza altro motivo che non sia quello di creare un artificioso finale a effetto) e lì, durante la bislacca confessione (Madeleine si proclama una semplice “attrice”, incolpevole (!!), una figurante che, per qualche soldo, ha collaborato al delitto, presto abbandonata al suo destino dall’omicida... ), impaurita dal sopraggiungere di una figura nera (una suora), cade nel vuoto, questa volta sul serio.
Il film termina così, improvvisamente, dopo che gli autori, con questo frettoloso finale, hanno messo quasi ogni cosa al suo posto: c’è l’effetto spettacolare, lo scioglimento atteso del racconto e la punizione necessaria della donna (ma si sono dimenticati del ben più colpevole Gavin).
La decisione di chiarire ogni mistero intorno ai tre quarti del racconto, getta una luce differente sull’intera pellicola: più che alla recita criminosa di una coppia assassina ai danni di un malcapitato ex poliziotto (l’aspetto criminale della vicenda non sembra minimamente interessare il cineasta), siamo allora dinanzi alla costante sottomissione del razionale Scottie di fronte al mistero della bellezza animalesca di Madeleine (nome che evoca quello di una celebre peccatrice). Se riletto come riflessione sull’impotenza dell’uomo, sulla divinizzazione della donna giovane e seducente (in tal senso la figura della stagionata Midge serve per fare contrasto), capace di sottomettere il proprio spasimante, di divenire una sorta di divinità neopagana cui spetta adorazione al di là di ogni possibile dubbio, allora la pellicola assume un maggiore e più compiuto significato. Accantonate le intenzioni insite nel tetro noir metafisico degli autori francesi, Hitchcock sembra occuparsi solo della “divina” bellezza della Donna, del suo enorme Potere, della sua capacità incantatoria: qualunque frottola inventi, ella riesce comunque a soggiogare l’innamorato incredulo, frastornato da tanta presenza e incapace di discernere gli eventi. Anche la scenetta intorno a un nuovo, bizzarro tipo di reggiseno (in un dialogo tra Scottie e Midge) - scenetta (inesistente nel romanzo) la cui futilità appare, in un primo momento, francamente fuori contesto - ben si adatta allora al sopradescritto quadro generale, di un erotismo vagamente ossessivo. La ricreazione progressiva dell’oggetto amato, partendo dall’aspetto relativamente grossolano della commessa Judy Barton, assume quindi un carattere lento, solenne e quasi rituale nel film di Hitchcock, rispetto ai toni più convulsi e rabbiosi della parte marsigliese del romanzo francese.
Riemerge così in Vertigo quell’ottica neopagana (piuttosto sciocca, in verità) e irrazionale (l’uomo incantato di fronte al “mistero” della Donna) che attraversa tanta cultura laicista e modernista del Novecento, cultura di cui La dolce vita felliniana (filmata solo due anni dopo Vertigo) costituisce il manifesto più compiuto e Il codice da Vinci, l’ultima esplicita manifestazione.
Vertigo ha fama di capolavoro, ma la deve a una cultura critica allineata con le mitologie matriarcali che animano in modo criptico il film. Osservato senza troppe riverenze e senza lasciarsi coinvolgere dall’adorazione della mdp per la Novak, il film non sembra una delle opere migliore di Hitchcock.
La sceneggiatura in definitiva copia tutti gli elementi essenziali del bel thriller francese, per poi diluirli in un contesto dapprima di commedia, poi di dramma sentimentale (tra la spasimante anzianotta e la conturbante Madeleine) in cui si perde la tensione e il gelido cinismo del testo letterario, confermato nel carattere della Madeleine “marsigliese” la quale confessa con durezza e realismo l’antico crimine, senza mai dichiararsi innamorata della sua vittima. Tutta l’ultima parte del film è manchevole, poco interessante (il mistero è stato svelato, non resta che aspettare di conoscere la reazione di Scottie) e, in una certa misura, distrugge le atmosfere arcane che il regista aveva saputo creare nella prima parte.
In ogni caso i dialoghi balbettanti della Madeleine “spiritata” appaiono sempre girare a vuoto (la “recita esoterica” vive di immagini e soprattutto, come vedremo, di suoni; la sostanza è troppo vaga per coinvolgere lo spettatore) e solo la forte “presenza” di Kim Novak riesce a renderli abbastanza accettabili. Di contro James Stewart appare poco cedibile sia come ex poliziotto, sia come ardente innamorato. Il suo procedere dinoccolato e il suo costante, razionale interrogare sembrano invece più idonei a un contesto di semplice commedia con qualche sfumatura drammatica. La follia, l’alcolismo, l’ossessione erotica e il raptus omicida di Flavières non appartengono al personaggio filmico che risulta dunque svuotato.
Hollywood produce “blockbuster” e il film di Hitchcock non poteva essere un teso, delirante noir destinato a una nicchia di appassionati ma doveva rivolgersi a un pubblico universale, intrattenerlo col sangue, lo spiritismo, ma anche con l’immancabile passione amorosa la quale, febbrile tensione erotica del solo Flavières nel romanzo, coinvolge invece i tre personaggi principali del film.

La grandezza del film, la sua efficacia cinematografica al di là dei difetti sopra evidenziati, deriva in realtà soprattutto dalla magnifica colonna sonora di Bernard Herrmann. Mentre il regista diluisce il folle noir in un bizzarro triangolo amoroso, il teso commento musicale del musicista, che sembra piovere sulla pellicola dalle fucine dei Nibelunghi wagneriani, dona al film quella dimensione di mistero grandioso e terrificante presente nel romanzo.
Il celebre tema d’apertura, il Leitmotiv delle vertigini, ci incanta grazie al sovrapporsi di accordi ferocemente dissonanti, di marca espressionista, sopra un tappeto sonoro imperturbabile, di andamento dapprima circolare (sulla quinta eccedente re-fa diesis-la diesis), poi rapido e semitonale, tappeto che evoca le ossessive spirali (acrofobia e smarrimento amoroso) che avvolgono il protagonista. Questa maestosa musica tardo romantica, con il suo fitto intreccio, la sua compattezza timbrica e la sua indubbia capacità di seduzione (ereditate dalla lezione wagneriana), dona solennità alle immagini in tutti i punti cardine del racconto e corregge le mimiche troppo “domestiche” e accomodanti di James Stewart. Al contrario essa si abbina perfettamente al carattere statuario e sensuale di Kim Novak, l’altro punto di forza della pellicola.
Il secondo grande Leitmotiv è quello di Madeleine (anticipato fin dai titoli di testa, intrecciato al tema della vertigine) che comporta un’intensa linea discendente (lungo una settima minore), armonizzata con originalità, ora dolcissima, ora travolgente. Esso, certo debitore alle linee sinuose e ipnotiche del Tristan, ritorna più volte, divenendo presto il motivo principale. Da esso origina, in seguito, il terzo Leitmotiv, quello della passione amorosa della coppia che esplode per la prima volta nella sequenza della spiaggia (The Beach, nell’edizione in cd della colonna sonora), per tornare insistentemente nel corso dell’ultima parte del film, laddove Madeleine si trasforma in Judy Barton.
E’ significativamente sul Letimotiv della donna, sulle sue note “interrotte” dalla caduta nel vuoto, che termina Vertigo.
Per evocare la presenza dell’antenata Carlotta Valdez (di origini messicane) Herrmann utilizza un dolce e sussurrato tema cromatico, scandito su un ossessivo ritmo di habanera (una danza di origine cubana, lenta, in tempo binario, caratterizzata da un costante ritmo puntato). Tale motivo si amplia poi, divenendo protagonista della parte introduttiva del Finale primo (siamo appunto in una missione spagnola e la presunta schizofrenia di Madeleine diviene lacerante, fino al punto di spingerla al gesto estremo); esso diviene allora una figura ritmica reiterata che dipinge l’ansia di Scottie e che sfocia, poco dopo - nel momento della salita sul campanile - nel consueto tema di Madeleine, giocato ora su un’abile alternanza ritmica (alla normale scansione in due si alterna, continuamente, una versione in tre, dalle cadenze più larghe e sontuose).
La seconda parte di Vertigo esordisce con la sequenza dell’incubo di Scottie che trova adeguato, perfetto commento in un inesausto, agitato movimento semitonale sul quale si stagliano salti di ottava ascendente che immediatamente tornano alla nota di partenza, salti che alludono all’idea di un’altezza irraggiungibile ovvero all’acrofobia di Scottie il quale, poco prima (la sequenza dell’incubo segue quella del campanile), era stato incapace di salvare l’amata Madeleine.

Lo sguardo di Hitchcock è come sempre attento, elegante e ricco di virtuosismi tecnici; numerose sono in tal senso le inquadrature memorabili e i movimenti di macchina di forte originalità: i lunghi pedinamenti e le silenziose sequenze, incentrate sugli insensatii vagabandoggi e sugli sguardi smarriti di Madeleine, sono momenti di bella cinematografia i quali da soli, tuttavia, non sono sufficienti a garantire interesse lungo una pellicola che supera le due ore. Anche il notevole lavoro svolto sui colori del film (vi predominano i verdi e i rossi, con effetti di inquieta accensione) appare intellettualistico e incapace di legarsi profondamente a uno script tanto indeciso tra mystery e melodramma amoroso.
Mentre la maggioranza della critica si ostina a vedere in Vertigo un capolavoro del genio di Hitchcock (quasi inesistenti i confronti con il romanzo nei testi dedicati all’argomento), il pubblico salutò con minore interesse la nuova fatica di Hitchcock che non fu in grado di eguagliare gli incassi di Rear Window (1954) e The Man Who Knew Too Much (1956).
In Italia la pellicola esce nel dicembre 1958 (per Natale) e non può utilizzare il titolo Vertigine, già scelto prima da Brignone nel 1942 e poi quale denominazione italiana del film Laura (1944) di Preminger, uscito nella seconda metà degli anni quaranta. Non si utilizza neppure il titolo del romanzo (come accade invece in Spagna e in Germania/Austria dove la pellicola esce con i titoli, rispettivamente, di De entres los muertos e Aus dem Reich der Toten) e si opta invece per La donna che visse due volte (
vedi foto). La traduzione italiana del romanzo esce nelle stesse settimane, presso Garzanti (vedi foto), replicando ovviamente il titolo italiano del film.

Diciotto anni dopo un grande estimatore dell’arte di Hitchcock quale Brian De Palma porta sullo schermo un’esplicita variazione di Vertigo in Obsession (Complesso di colpa, 1976; 97 min.). Lo aiuta Paul Schrader, autore della sceneggiatura.
New Orleans, 1959: il facoltoso uomo d’affari Michael Courtland (Cliff Robertson) perde la moglie Elisabeth (Geneviève Bujold) e la figlia, rapite e uccise da una banda di sequestratori. O almeno così crede. Sedici anni dopo l’uomo, ossessionato dalla grave perdita di cui si sente colpevole (ai rapitori, su consiglio della polizia, aveva consegnato una valigetta con della carta straccia), incontra a Firenze, nella chiesa di San Miniato (ma gli interni sono quelli del duomo della vicina San Gimignano) Sandra (sempre Geneviève Bujold), una ragazza identica alla moglie. Proprio in quella magnifica chiesa Michael aveva incontrato, per la prma volta, la moglie Elisabeth nel 1952. Inizia una love story simile a quella di Scottie e Judy: l’uomo corteggia la ragazza, la porta a New Orleans e organizza grandiose nozze nella cattedrale di San Luigi. Ma la storia si ripete: anche Sandra viene rapita. Michael, caduto nella più totale disperazione, cede a ogni ricatto fino a quando scopre che dietro a entrambi i rapimenti c’è sempre stato Robert La Salle (Lithgow), il suo più caro amico, che Sandra ha agito in accordo col regista occulto, e solo nell’ultimo, delirante pianosequenza circolare capisce che la ragazza è in realtà sua figlia, scampata fortunosamente alla morte negli eventi criminosi del 1959.
La pellicola, girata con grande virtuosismo, tra eleganti suggestioni figurative e stupendi movimenti di macchina, non possiede però le qualità complessive del film di Hitchcock. Innanzitutto gli manca una colonna sonora di altissimo livello, anche se l’ottimo commento sonoro, elegante e sontuoso come le immagini, è firmato nuovamente da Bernard Herrmann (si tratta di una delle ultime creazioni del musicista) il quale fa del suo meglio per “imitare” se stesso e la sua grande partitura del 1958 (vi sono anche numerose citazioni dirette). Inoltre mancano a Obsession i grandi interpreti hitchcockiani, la Novak soprattutto, anche se Geneviéve Bujold, nel doppio ruolo di madre e figlia, dimostra grande talento. Infine Schrader e De Palma evitano la dimensione esoterica e ripiegano su quella semplicemente mistico-religiosa: abbondano le chiese, gli affreschi e l’idea cattolica dell’amore coniugale. L’ossessione di Michael è dunque meno misteriosa e priva di qualunque elemento trasgressivo: si tratta di un marito che ha perso la sua famiglia e vive prigioniero di un rimorso lacerante.
Se dunque il disegno complessivo diventa più convenzionale, va anche detto che i giovani autori non commettono l’errore di Hitchcock di precipitare il film in un melodramma passionale. Essi restano fedeli allo spirito di D’entre les morts: il mistero intorno alla vera identità di Sandra rimane tale fino alle ultime sequenze; il regista occulto possiede un ruolo di importanza quasi pari a quello dei due protagonisti, dirigendo la “recita” di Sandra fino alle ultime battute; infine Michael, vistosi amaramente raggirato, dapprima ammazza l’ideatore delle due crudeli simulazioni, poi - non avendo compreso si tratta di sua figlia - appare intenzionato a uccidere la ragazza di Firenze (come il Flaviéres francese). Insomma De Palma lascia cadere il lato esoterico, evita l’idolatria neopagana nei confronti della bellezza femminile (la Bujold è una creatura meno “felina” e più “domestica”) e si concentra sul complotto. Il mystery resta tale fino all’ultimo, anche se, ovviamente, trattandosi quasi di un remake, lo spettatore “colto” si aspetta quel tipo di soluzione.
Obsession, senza essere una pellicola memorabile (l’arte di De Palma giunge alla compiuta maturità negli anni ottanta), è dunque un rifacimento assai personale, interessante soprattutto nelle varianti poste in atto rispetto al testo di riferimento. La raffinata ambientazione che alterna una delle città più europee degli USA quale New Orleans e suggestivi scoeci di Firenze, si accorda perfettamente con il tipo di materia narrata (un mystery francese).
Dal punto di vista ideale va notato che lo spirito conservatore degli stati del sud (ne parla Michael nella sequenza d’apertura) permea la vicenda, offrendo una variante “tradizionalista” delle scelte di Hitchcock (come pure di Boileau e Narcejac): l’ossessione riguarda ora la famiglia distrutta, il legame coniugale dissoltosi e pertanto il protagonista - contro il parere di tutti - affretta le nozze con la troppo giovane Sandra. L’ossessione erotica di Vertigo è qui pressoché assente.
D’altronde Obsession è firmato da Schrader ovvero da uno degli autori più spostati a destra nel panorama americano (firmerà poco dopo l’inattuale Hardcore, 1978, sull’inferno della pornografia e poi Mishima, 1985, su uno dei personaggi più sconvolgenti, antiamericani e antimodernisti del dopoguerra) ed è stato girato con capitali indipendenti, al di fuori di una Hollywood decisamente poco in sintonia con la visione tradizionale della vita e con la morale cattolica. Non dimentichiamo che Sandra è una restauratrice: cerca di rifondere l’antica bellezza in affreschi sacri del primo Rinascimento, di riportarli a nuova vita. Nello stesso modo Schrader e De Palma “restaurano” e correggono, a modo loro, il trasgressivo, sensuale Vertigo.

Otto anni dopo un differente De Palma, affermato autore di Carrie (1976), Dressed to Kill (1980) e Blow Out (1981), reinventa, per la seconda volta, Vertigo in Body Double (letteralmente <corpo doppio> o meglio <controfigura>; in Italia diventa Omicidio a luci rosse; 114 min.). Il regista è ancora l’ideatore del soggetto che affida allo sceneggiatore Robert J. Avrech: insieme mettono a fuoco uno script per la Columbia che è radicalmente diverso da quello di Obsession. Nessun tradizionalismo, niente amore coniugale; al contrario le ossessioni erotiche della coppia di scrittori francesi e di Hitchcock tornano al centro della scena con un vigore e una forza d’urto conseguente alla caduta di (quasi) ogni censura dopo la rivoluzione culturale degli anni settanta. Body Double è un film “audace” nella confezione, che si colloca agli antipodi di Obsession (come si è detto una coraggiosa e “inattuale” produzione indipendente); è un tipico lavoro per una major di Hollywood (come lo era Vertigo) che cavalca le ossessioni erotiche tanto care all’universo culturale progressista.
D’altro canto la pellicola mostra la piena maturazione stilistica di De Palma, attraverso virtuosismi di ogni genere. Non c’è sequenza che non contenga inquadrature insolite o pianosequenza mozzafiato o sottili simbolismi oltre a un’enorme quantità di riferimenti alla storia del cinema hollywoodiano (e di Hitchcock in particolare).
Come si é detto la storia ricalca quella di Vertigo: un attore malandato (Craig Wasson), che soffre di claustrofobia, diventa il testimone apparentemente casuale di un efferato delitto. Dall’incredibile appartamento offertogli da un amico (Gregg Henry; che si intuisce fin dall’inizo essere l’artefice di ogni subdola macchinazione) egli spia una donna (Melanie Griffith, figlia della star hitchcockiana Tippi Hedren) che balla seminuda in un appartamento di fronte. Dopo averla lungamente seguita (ma si tratta ora di Deborah Shelton), si accorge che qualcuno la sta minacciando: quando tenta di salvarla dal suo aggressore è ormai troppo tardi.
Pochi giorni dopo il protagonista vede per caso, in un filmato televisivo, una pornostar (ancora Melanie Griffith) che balla e si muove come la sua “defunta” vicina. Riesce a conoscerla e in breve scopre che ha recitato su commissione quelle scene per lui. Intanto l’assassino è nelle vicinanze: capisce di essere stato scoperto e tenta allora di uccidere l’attore e la pornostar, senza riuscirvi. Il bene trionfa.
Dal punto di vista logico l’intreccio ha falle notevoli che il regista cerca di nascondere mediante feroci ellissi narrative (dov’era la padrona di casa nelle serate in cui la pornostar si dimenava nella sua camera da letto); ciononostante la pellicola assorbe lo spettatore per la sua aura di mistero che, a differenza di Vertigo e similmente a Obsessione e D’entre les morts, viene risolta solo nelle ultime immagini. L’avere calato la vicenda nell’universo degli attori e, direttamente di Hollywood, accentua la riflessione sulla voragine che separa realtà e apparenza e genera un racconto-incubo dove ogni cosa, ogni paesaggio, ogni persona cela una differente natura. La moglie dell’attore lo tradisce, il presunto amico lo manipola per farne il testimone di un delitto le cui modalità (rapina per furto) scagionano il vero assassino (il marito che, come al solito, vuole impadronirsi delle ricchezze della consorte), i paesaggi si rivelano di cartone, la sensuale vicina è una professionista dell’hardcore, il seno di una bella attrice appartiene in realtà a una controfigura (ultima sequenza) e così via.
La verità ultima delle cose, pirandellianamente, ci sfugge. Ciononostante non sono queste risapute esercitazioni intellettuali ad affascinare in Body Double; nè tantomeno lo sguardo ironico e indulgente sull’universo del porno (si pensi al radicalmente opposto, coraggioso e intransigente Hardcore, 1978, di Paul Schrader, sceneggiatore di Obsession) che offre momenti di indubbia ilarità. Quello che rende la pellicola di De Palma un film di rilievo artistico, non troppo inferiore a quello del celebrato Vertigo, consiste nell’eccezionale talento visivo, nella costruzione di fluviali sequenze mute di complicata architettura narrativa (la sequenza del centro commerciale che occupa il posto dei lunghi pedinamenti che impegnavano James Stewart; la sequenza dell’omicidio) e nella capacità di legare il sonoro alle immagini. La bella colonna sonora di Pino Donaggio, nell’ “obbligatorio” stile tardoromantico di Herrmann, offre però sonorità prosciugate e anche numerose digressioni jazzistiche affidate ad asprezze pianistiche: in tal modo essa trova una perfetta sintonia con le asettiche e gelide realtà urbane degli anni ottanta che, in Body Double, hanno sostituito gli ovattati musei e le esotiche missioni spagnole di Vertigo.
L’ossessione erotica in De Palma diviene la molla principale mentre altri aspetti di Vertigo vengono ridimensionati: la recita della controfigura viene ridimensionata (essa agisce da lontano, vista attraverso un canocchiale come in Rear Window); la ricomparsa della pornostar offre al protagonista un piacere che è solo sessuale (la dimensione amorosa è assente nel film, anche in questo senso agli antipodi innanzitutto di Obsession); la donna è, in effetti, una sorta di prostituta come la Renata Sourange di Marsiglia, mentre il complotto dell’assassino rimane centrale fino allo scioglimento come avveniva in Obsession (i due film di De Palma rispettano, in tal senso, i canoni del poliziesco tradizionale).
Per altri aspetti invece Body Double approfondisce e porta a compimento le premesse di Vertigo: l’attore appare ancora più succube dell’universo femminile di quanto non fosse James Stewart, al punto che l’uomo, scoprendo la convivente che lo tradisce nel suo letto, si limita ad andarsene in silenzio mentre la donna accenna solo uno sguardo di sorpresa, senza neppure interrompere il suo amplesso. La figura maschile appare impotente e priva di qualunque autorità.
La divinizzazione della donna (vedi Vertigo) ha condotto, venticinque anni dopo, alla possibilità di girare una versione semipornografica del romanzo francese, in cui la sessualità esplicita di numerose sequenze rimanda all’immenso universo del porno che vive come nascosto, acquattato dietro a Hollywood. E’ questo il senso delle esilaranti battute che la pornostar e un’attrice convenzionale si scambiano in un dialogo ricco di malintesi: dietro a Hollywood è sorta una Hollywood della pornografia (i titoli pornografici fanno il verso a quelli della Hollywood classica, a partire da Via col vento/Via col ventre) che costituisce la segreta e logica conseguenza dell’acclamato universo dello spettacolo. Dopo tante battaglie per un’espressione “libera” - ovvero in grado di mostrare gli atti sessuali in maniera sempre più dettagliata - l’esito raggiunto è stato quello di veder nascere e proliferare una seconda industria in cui la messa in scena dell’atto sessuale diviene l’unico argomento della fabula. Quest’ultima anzi perde progressivamente perfino ogni parvenza di pretesto, pur di non intralciare le inesauste varianti del “tema principale”.
La pornografia è il segreto di Hollywood, il suo incredibile approdo: questo è il significato ultimo di Body Double. Così le due realtà, la Hollywood “seria” e quella “pornografica” possono finalmente incrociarsi e riconoscersi. La divinizzazione della donna - unica via attaverso la quale era possibile “mostrarla” in tutta la sua pienezza negli anni cinquanta e sessanta - diffonde il desiderio, distrugge le differenze (tra ciò che era permesso agli uomini e alle donne), propaganda un’immagine principalmente erotica della donna (a discapito dell’immagine materna) che, nel giro di un paio di decenni, sfocia nella pornografia di massa, immenso business proprio a partire dagli anni ottanta. Come dimostra la sequenza finale (il seno della controfigura, la presenza della pornostar sul set di un film della Hollywood “regolare”) la contaminazione tra i due mondi è un evento logico poiché entrambi ruotano intorno al corpo femminile, lo vendono a una platea potenzialmente infinita di acquirenti.
Se Body Double è meno attento a “rifare” Vertigo (in definitiva qui le protagoniste sono realmente due), esso invece si concentra sull’universo della visione e indica una “doppiezza” ancor più importante: quella che ha generato, dietro la patina rispettabile ed elegante di Hollywood (il mondo di Deborah Shelton e di Craig Wasson), l’enorme e variegata galassia della pornografia (il mondo di Melanie Griffith, non a caso descritto con spregiudicata completezza di particolari riguardo alle tipologie di prestazioni sessuali che animano i differenti prodotti). Dunque la storia del cinema classico genera la pornografia come sua diretta (anche se nascosta e incoffessabile) prosecuzione: lo spettacolo è stato, fin dalle origini, animato dal desiderio e dalla contemplazione del corpo femminile (si rifletta sul fatto che anche le più “seriose” riviste di critica cinematografica hanno sempre “flirtato” con immagini femminili che si collocavano ai confini del lecito della propria epoca; si rivedano, ad esempio, copertine e fotografie di <Cinema> e <Cinema nuovo> degli anni cinquanta); la pornografia non fa che esplicitare ed esasperare quel sottinteso mentre migliaia di sale cinematografiche abbandonano (sempre negli anni ottanta) il film tradizionale e passano alle “luci rosse”.
Mediante questa esasperazione del valore della sessualità femminile, la donna viene rimodellata dai media (ossia dalla classe dirigente), subisce una radicale mutazione antropologica (cui l’uomo si adegua piuttosto passivamente) e diventa elemento attivo (ancorché problematica fonte di disordine sociale) nel contesto sociale dell’Occidente capitalistico.
Il mistero di Vertigo è svelato: la sensualità fasciata e compressa di Kim Novak può ora pienamente manifestarsi nei compiaciuti ancheggiamenti di Melanie Griffith.